Una riflessione sul lavoro femminile: c’è ancora molto da fare per le pari opportunità

È notizia di questi giorni che, nel 2019, si sono dimesse dal lavoro, in Italia, 37 mila neo mamme.

Ancora una volta un dato preoccupante, come accede ormai quasi sempre quando escono analisi statistiche relative alla situazione donne e lavoro, che fanno suonare più campanelli d’allarme.

Una tendenza dalle dimensioni già di per sè preoccupanti che con la crisi socio-economica legata al Coronavirus, rischia di aggravarsi enormemente. Perché, a differenza di una prima lettura semplicistica circolata all’inizio della pandemia, sappiamo bene una cosa: con le crisi a rimetterci sono sempre le persone già più in difficoltà, a partire in questo caso dalle donne lavoratrici, per non parlare poi delle madri che lavorano.

Viviamo in un Paese per molti aspetti ancora arretrato per quanto riguarda la cultura e le misure che rendono effettiva la parità di genere, in tutti gli ambiti, da quello lavorativo, familiare e sociale.

Riconoscere l’esistenza di questa ferita, di questa profonda diseguaglianza in termini di opportunità tra donne e uomini, è il primo passo da compiere per combatterla. Differenze di salario rispetto ai colleghi uomini, maggiori ostacoli nel far carriera e ricoprire ruoli di vertice, più difficoltà nel far conciliare la vita lavorativa con quella familiare, un tasso di disoccupazione ancora troppo elevata se paragonato a quello maschile. Una oggettiva discriminazione nell’accesso al mondo produttivo confermata puntualmente, come un orologio svizzero, da dati pochi rosei che fanno emergere un contesto in cui purtroppo le Pari opportunità hanno ancora molta strada da fare.

In Emilia-Romagna possiamo dire di trovarci in un’isola felice con un’occupazione femminile di oltre 10 punti superiore alla media nazionale e oltre 85 mila imprese femminili. Si tratta di un risultato frutto di una grande attenzione sul tema e di un corollario di misure e interventi volti a favorire l’ingresso e la permanenza femminile nel mercato del lavoro, su cui però, anche nella. nostra Regione, bisogna continuare a insistere. Il percorso, di certo, non si può dire concluso.

Quando parliamo di donne e lavoro non possiamo non parlare di smart working, su cui come Emilia-Romagna abbiamo sempre creduto  investito. Quando ero assessora alle risorse umane siamo stati la prima Regione a sperimentarlo sugli impiegati dell’ente per poi farlo entrare a pieno regime già l’anno scorso.

Questa pandemia ha rappresentato un grande laboratorio per testare la sua reale efficacia e le sue potenzialità.

Parliamo di una forma di lavoro che non guarda alle scadenza e alle timbrature, ma agli obiettivi, ai progetti. Non importa il “dove”, se a casa o in un altro luogo, ma il “come”. Tra i molteplici vantaggi ha quello di rispondere, per la sua flessibilità negli orari, al grande tema della conciliazione vita e lavoro, che come sappiamo riguarda soprattutto le donne, sui cui ancora nella maggior parte dei casi grava il lavoro di cura. Uno strumento a mio avviso molto utile, su cui però c’è un “ma”. Serve infatti un intervento complessivo perché in assenza di regolamentazioni a rimetterci sono sempre i lavoratori meno tutelati, ovvero coloro ad esempio che non hanno la possibilità di esercitare il “diritto alla disconnessione” e quindi lavorano molto di più, o chi al contrario non può avvalersi del “dirittto alla connessione” perchè non è in possesso degli strumenti tecnologici adeguati o vive in una zona in cui persistono maggiori difficoltà di connessione.

Quello del rapporto tra donne e lavoro è un tema da cui partire, con ancora più convinzione oggi. Un Paese diseguale è un Paese più povero, più debole. Soprattutto quando si parla di un Paese in cui una buona parte della popolazione (le donne) non lavora ed è vittima di ingiuste discriminazioni.

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