La mia intervista sul Corriere Romagna sulla lotta alla violenza di genere

Sono giorni in cui la cronaca ci porta prepotentemente a parlare di violenza di genere e non solo per la ricorrenza del 25 novembre. «Sì, a pochi giorni dall’assassinio di Giulia Cecchettin, con la morte di Rita Talamelli, strangolata dal marito, siamo già a 106 donne uccise quest’anno: un bilancio spaventoso, un’ecatombe che lacera le persone, le famiglie, la società, le istituzioni – commenta Emma Petitti, presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna –. La morte della giovanissima Giulia e l’altrettanto giovane età del suo assassino ci dicono che nemmeno le nuove generazioni sono al riparo da una violenza che ha origini antiche, radicata in una concezione patriarcale della società che punisce le donne, “colpevoli” di voler essere libere al pari degli uomini, libere di scegliere cosa studiare, dove lavorare, chi essere, chi amare.

Lei oltre a presiedere l’assemblea regionale è anche coordinatrice delle Pari opportunità e di genere della Conferenza delle assemblee legislative. Cosa possono fare le istituzioni? «Superare i tossici retaggi maschilisti, gli atteggiamenti ossessivi e prevaricatori e la concezione proprietaria del corpo e della vita delle donne richiede un enorme investimento in prevenzione. Una educazione alla affettività e al rispetto (da non confondere, come viene strumentalmente fatto dalla destra, con l’educazione alla sessualità) che parta, come proposto dalla segretaria del Pd, sin dai primi anni di scuola. Per rafforzare questi messaggi abbiamo ideato come Conferenza delle assemblee legislative una campagna nazionale che sarà diffusa in tutte le regioni.

Grazie al mio ruolo di coordinatrice ho aperto un dialogo con la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. Il ddl appena diventato legge dopo l’approvazione in Senato segna un passo in avanti, anche per la convergenza tra maggioranza e opposizione. Nel rispetto delle vittime il provvedimento ha accolto la proposta dei centri antiviolenza che l’ammonimento non fosse esteso ai reati di violenza sessuale. Rafforza inoltre le misure di prevenzione, introducendo più strumenti per intervenire contro i “reati spia” e semplifica le procedure per l’applicazione del braccialetto elettronico, accorcia i tempi e fissa termini per un intervento concreto a protezione della donna. Occorre però investire risorse adeguate. Il taglio del 70% dei fondi alla prevenzione alla violenza di genere da parte del governo non è, in questo senso, un buon segnale».

Qual è l’impegno della Regione? «La Regione è attiva a partire dal mondo della scuola; stiamo promuovendo specifici corsi di formazione rivolti ai docenti delle scuole superiori per educare alle pari opportunità, con particolare riferimento al superamento degli stereotipi di genere. C’è poi il sostegno alla rete dei centri antiviolenza e non solo: sono stati   destinati oltre 600mila euro ai Centri per uomini autori di violenza di genere; tra questi anche la sede riminese del Centro pubblico Liberiamoci dalla violenza e l’associazione DireUomo spazio ascolto maltrattanti di Rimini. Sono 14 i centri che fanno parte della rete regionale di cui 7 pubblici e 7 privati. Una rete capillare sul territorio cui si affiancano i 22 centri antiviolenza e le 49 case rifugio per le donne in difficoltà. Verrà inoltre istituito l’Elenco regionale dei Centri per uomini autori di violenza ed è attivo il sostegno del reddito di libertà: nel 2023 sono stati stanziati 1,3 milioni di euro per le donne vittime di violenza che scelgono un percorso di autonomia».

Cos’altro possiamo fare per porre fine a questa emergenza? «Il numero di episodi ci insegna che queste tragedie non hanno più, purtroppo, i contorni di una emergenza episodica, ma piuttosto i tratti di un problema strutturale. Dobbiamo essere consapevoli che alle istituzioni e alle agenzie formative è possibile attribuire solo parte delle responsabilità, perché i cambiamenti di questa portata hanno bisogno di uno scatto in avanti dell’intera società e non si risolvono con nuove (seppure utili) misure giudiziarie. Per superare il problema dobbiamo de-costruire l’intero sistema che alimenta e perpetua gli stereotipi patriarcali, brodo di cultura delle future violenze. È necessario che a mettersi in discussione siano innanzitutto gli uomini, a partire da chi può essere d’esempio e da chi, come la classe politica nella sua interezza, ha il dovere di accelerare il cambiamento».

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