La mia intervista a ‘Pandora Rivista’ sul tema del rapporto tra istituzioni e cittadini
Ormai da tempo le forme della rappresentanza attraversano una crisi crescente. Chi opera nelle istituzioni, anche a livello regionale e locale, si trova a doversi interrogare ogni giorno sui modi per ricucire questa frattura e incentivare la partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive. Per approfondire queste problematiche, a partire dall’esperienza concreta di un’amministratrice che ricopre un ruolo di primo piano in un territorio ricco di sperimentazioni e pratiche innovative come quello emiliano-romagnolo, abbiamo intervistato Emma Petitti, Presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e componente della Cabina di regia nazionale sul contrasto alla violenza di genere, all’interno della Conferenza Stato-Regioni.
Spesso le funzioni di un’istituzione importante come quella regionale sono relativamente poco conosciute dai cittadini. Quali sono i principali ruoli dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna e perché il Consiglio regionale ha assunto questo nome?
Emma Petitti: L’Assemblea legislativa è un organo di rappresentanza democratica; lo definiamo il “parlamentino” della Regione Emilia-Romagna, che, abitata da più di quattro milioni di abitanti, rappresenta una parte rilevante del sistema Paese. Per Statuto regionale, l’Assemblea è titolare in via esclusiva della potestà legislativa di approvare le leggi regionali, d’iniziativa tanto della maggioranza quanto dell’opposizione, e il passaggio di denominazione da Consiglio regionale ad Assemblea legislativa è avvenuto proprio per suggellare questo potere legislativo ed enfatizzare tale ruolo istituzionale di produzione normativa riconosciuto al Consiglio regionale anche dalla Costituzione. L’Assemblea esercita poi un ruolo di indirizzo politico e di sindacato ispettivo rispetto all’attività della Giunta. Nelle ultime Legislature si è anche ampliato il raggio d’azione dell’Assemblea legislativa, con interventi legati ad esempio alla formazione e al recepimento del diritto dell’Unione Europea: ogni anno realizziamo una Sessione europea, che deve tradurre gli indirizzi forniti dall’Unione alle comunità locali – del resto, noi ci siamo da sempre definiti “Regione d’Europa”. Siamo la regione che da sempre utilizza al meglio le risorse europee, cercando di declinare gli indirizzi all’interno di un dibattito politico e culturale. Nelle frequenti audizioni nell’ambito del Patto per il lavoro e per il clima, ad esempio, mettiamo insieme circa settanta soggetti. Infine, coordiniamo istituti di garanzia come la Consigliera di parità regionale, il Difensore civico, il Garante dei detenuti, il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, il Comitato regionale per le comunicazioni; ruoli assegnati con nomina da parte dell’Assemblea legislativa per garantirne l’imparzialità, la terzietà e l’indipendenza.
Come avviene, all’interno dell’Assemblea legislativa, il rapporto con il territorio e quali sono i principali canali di raccolta delle istanze provenienti dalla società?
Emma Petitti: Il tema della partecipazione è fondamentale. Le istituzioni devono costituire sempre più dei luoghi di rappresentanza degli interessi delle comunità, ma in questi anni è stato difficile colmare la distanza provocata dalla crisi dei partiti tradizionali. Come Assemblea legislativa, abbiamo cercato di mettere in campo degli interventi per creare dei processi innovativi di partecipazione e confronto. Penso ad esempio alla legge sulla partecipazione del 2018, voluta proprio per fornire risposte a bisogni sociali molto sentiti, come quelli ambientali, di mobilità o educativi, attraverso bandi di finanziamento rivolti a progetti provenienti dai territori – da unioni tra associazioni e Comuni, ad esempio, oppure coinvolgendo scuole e università. Negli ultimi anni si sono anche svolti referendum consultivi o abrogativi rispetto a leggi o regolamenti di competenza regionale. La volontà politica è quella di investire su modelli di democrazia partecipativa sempre più innovativi – siamo una delle pochissime Regioni ad avere una legge sulla partecipazione – che guardino alle esperienze più virtuose e sperimentali d’Europa.
Il livello regionale è intermedio tra quello locale dei Comuni, che oggi riescono a mantenere un maggiore legame coi cittadini, e quello nazionale, dove la crisi della rappresentanza è più forte. Secondo lei le istituzioni regionali devono rivolgersi di più al territorio oppure svolgere un ruolo di mediazione che guardi maggiormente al sistema Paese e alla comunità europea?
Emma Petitti: Per la mia esperienza di otto anni tra Giunta e Assemblea, l’Emilia-Romagna è una Regione molto legata alle comunità. Ci stiamo interrogando su come la dimensione regionale possa collocarsi al meglio tra istanze locali e sistema Paese. Anche perché dopo la riforma delle Province, che le ha fatte diventare enti di secondo livello, molti dei servizi prima in capo a loro sono diventati materia regionale. La Regione, da ente di coordinamento delle politiche, è diventato anche un ente di gestione – e probabilmente non è aumentata né l’efficienza né il risparmio. Noi veniamo da una storia di sussidiarietà forte, di delega e decentramento, con le Province che fungevano da trasmissione delle politiche regionali. Ora, quindi, la Regione deve porsi necessariamente in una posizione di fortissima connessione col territorio e di rapporto diretto con oltre trecento sindaci. Da una parte, ciò ci ha avvicinato alle comunità – quella di Stefano Bonaccini è una politica di grande prossimità alla gente –, dall’altra parte non credo che questo sia un modello virtuoso a livello di gestione dei territori. Credo che vadano piuttosto rafforzate le autonomie territoriali, quindi i Comuni, pur conservando quel coordinato sistema delle autonomie consacrato anche nello Statuo regionale. L’Emilia-Romagna è sempre stata un cantiere di riforme istituzionali e infatti abbiamo provato a sperimentare un modello alternativo, quello delle Unioni dei Comuni – modello che non sempre è stato capace di dare le risposte necessarie, soprattutto per quanto riguarda le Unioni montane e i Comuni più fragili. La Regione, dal canto suo, deve mettere in campo politiche più elevate, concentrandosi sul rapporto con l’Unione Europea, sui fondi nazionali come quelli del PNRR, sui grandi investimenti, sulle connessioni tra territori regionali, anche superando i confini amministrativi.
Lei si è anche occupata, in vari ruoli, di politiche di genere. A che punto siamo con l’inclusione di genere all’interno degli organi istituzionali, in Emilia-Romagna ma anche a livello nazionale? Quali passi sono ancora da compiere?
Emma Petitti: Per me questa passione è nata abbastanza casualmente, col consiglio del mio relatore all’università di lavorare su una tesi sul tema delle donne nella scienza, che mi ha portata poi a varie esperienze nell’associazionismo. La politica viene dopo, anche lì con una certa casualità. Nella sfera pubblica, quindi, ho sempre cercato di portare la mia formazione. Ancora oggi le donne sono quelle che pagano di più la crisi sociale e lavorativa, che hanno più difficoltà a fare carriera nonostante mediamente si laureino prima. Il grande tema è quello della conciliazione vita-lavoro, e su questo servono interventi concreti. Laddove c’era la possibilità di cambiare qualcosa, abbiamo visto dei miglioramenti: l’Emilia-Romagna è la regione col più alto tasso di occupazione femminile (al 63%, contro il 49% nazionale). Abbiamo anche la più alta rappresentanza di donne nelle istituzioni, anche grazie ad una legge sulla parità approvata all’unanimità in Assemblea regionale nel 2014. C’è poi la legge della doppia preferenza alle elezioni. Servono leggi, servono risorse – siamo anche la Regione che ha investito di più sui centri antiviolenza – e serve cultura di genere, da introdurre innanzitutto nei livelli educativi primari. Per fare ciò serve però una politica non a spot: è una fase politica in cui un presidio sul tema dei diritti è essenziale.
Gli ultimi anni sono stati segnati da una progressiva disaffezione della società nei confronti della partecipazione politica, almeno nelle sue forme tradizionali. C’è ancora una specificità emiliano-romagnola rispetto al resto d’Italia a livello di coinvolgimento della società? Quale può essere il ruolo delle istituzioni locali per incentivare una maggiore partecipazione alla vita pubblica?
Emma Petitti: Condivisione e collaborazione sono storicamente nelle nostre corde, ma è difficile dire se ancora oggi siamo un modello di ampia partecipazione politica. Una forma fondamentale di partecipazione primaria e di confronto con gli eletti, quella che si svolgeva a livello di quartieri, è venuta meno e ciò ha molto impoverito il dibattito pubblico, che è sempre più scalzato dalla comunicazione, soprattutto digitale. Abbiamo tentato di sviluppare progetti innovativi come l’Assemblea legislativa dei ragazzi, chiedendo agli istituti di individuare giovani studenti che avessero voglia di partecipare alla cosa pubblica. Iniziative, come anche la legge sulla partecipazione o il Patto per il lavoro e per il clima, che vogliono provare a stimolare una riflessione ma ancora molto si può, e si deve, fare. Servono interventi più profondi, che non possono riguardare un singolo territorio. L’Emilia-Romagna, come anche la Toscana, è storicamente una terra che si sa mettere in discussione e ripartire – si è visto anche nella reazione all’alluvione –, ma non basta più essere “isole felici” in un’Italia che presenta differenze territoriali radicali. Le due velocità non aiutano il sistema Paese a crescere e diventare più competitivo. Abbiamo bisogno di una riforma che sappia stimolare l’intero Paese, superando la frammentazione, e in ciò il Parlamento deve essere molto più protagonista.
Dal rapporto con l’Unione Europea, molto valorizzato in Emilia-Romagna, che genere di suggerimenti si possono trarre a livello di rapporto tra istituzioni e cittadini?
Emma Petitti: Negli ultimi anni l’Unione ha innescato un processo virtuoso e anche inaspettato. Col Next Generation EU si è messa in campo un’idea di Europa in grado di guardare alle giovani generazioni, di superare i divari generazionali e territoriali, investendo risorse considerevoli – sarebbe un dramma non essere in grado di utilizzarle – e riconoscendo al nostro Paese un ruolo di valore. In questo momento di rinascita dopo il dramma della pandemia possiamo trovare nell’Europa un interlocutore rispetto alle grandi sfide del domani, mentre fino a qualche anno fa, con le politiche di austerità, l’Unione ingessava le nostre istituzioni. L’Emilia-Romagna ha dimostrato di saper sfruttare le risorse con progetti efficaci; il sistema Paese può dire lo stesso? Io credo che serva anche una rivoluzione culturale, con un richiamo alle menti migliori di cui dispone il nostro Paese e con ingenti investimenti su studio e ricerca.
Abbiamo parlato di crisi della partecipazione, ma oggi ci sono anche nuove forme di partecipazione, che si organizzano secondo modalità più fluide, meno strutturate, spesso intorno a istanze precise (l’ecologia e il femminismo, ad esempio). Che rapporti tessono le istituzioni con questi nuovi spazi e movimenti?
Emma Petitti: Ci deve assolutamente essere un rapporto, che però deve imperniarsi sul reciproco rispetto, soprattutto da parte delle istituzioni nei confronti dei movimenti. Penso, ad esempio, al fenomeno delle Sardine di qualche anno fa: questi movimenti nascono quando non c’è una risposta ai bisogni generalmente sentiti come più urgenti, per cui è la collettività ad organizzarsi e scendere in piazza. Rispetto significa allora non strumentalizzare una politica spontanea, che nasce da comitati, collettivi e movimenti, ma saperla ascoltare e declinarla nelle scelte politiche. Inoltre, ci vuole sempre coerenza circa i tratti identitari: non possiamo voler sempre rappresentare tutto e tutti, dobbiamo scegliere a chi rivolgerci. In questa fase in cui le crisi aumentano le disuguaglianze, il tema vero è quello della ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità. Quella che fornisce risposte alle fasce di popolazione più fragili è la politica che, a mio parere, interpreta meglio il nostro tempo. A voler dare risposte a tutti si rischia di avere un’identità troppo sfumata e passeggera, e i risultati si vedono: si lascia spazio alle destre in tutta Europa.
In conclusione, quale le sembra essere la riforma istituzionale più urgente per ricucire il rapporto tra la cittadinanza e i suoi rappresentanti?
Emma Petitti: Ripartirei dai fondamentali, quindi proverei a riconsegnare alle città e ai territori quelle forme di partecipazione primaria che un tempo erano i quartieri e i decentramenti – certo, in una forma più moderna e innovativa. Bisogna ridare la possibilità alle cittadine e ai cittadini di dialogare con i rappresentanti istituzionali, di tutti i livelli, in modo che possano esprimere le proprie esigenze. Oggi il dialogo è innanzi tutto con le associazioni, ma per generare cultura e senso civico bisogna far partecipare le cittadine e i cittadini in prima persona, ad esempio durante la fase di preparazione al voto, attraverso delle agorà che permettano l’ascolto e il dialogo. Le piazze digitali sono molto limitanti, oltre a essere inquinate dalle fake news; servono più reciprocità e più luoghi fisici. In secondo luogo, bisognerebbe pensare ad una riforma che permetta a Comuni, Regioni e Stato, a tutti gli enti territoriali, di dialogare maggiormente tra loro. Non è solo un tema di risorse, bensì di scelte su come impiegare queste risorse. C’è un tessuto sociale da riconnettere.
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