Le Autonomie nell’ordinamento giuridico. Convegno all’Università di Bologna. Il mio intervento
All’Universita’ di Bologna una giornata di riflessioni e confronti dedicata ai processi di evoluzione storica e politica delle Autonomie. Alla presenza della Ministra Erika Stefani, con il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, il Sindaco della Città metropolitana Virginio Merola, e tanti protagonisti della storia amministrativa, giuridica e culturale della nostra Regione.
Il mio intervento.
- Il modello delle autonomie e il regionalismo della Regione Emilia-Romagna a mezzo secolo dalla sua nascita
A quasi 50 anni dalla prima elezione delle Regioni a statuto ordinario, sulla base di un disegno costituzionale fortemente orientato ai principi dell’autonomia e del decentramento prefigurato dal testo costituzionale del 1948, l’iniziativa odierna assume una importanza davvero notevole, svolgendosi in una fase storico-politica nella quale le questioni dell’autonomia e del rilancio dello Stato regionale in Italia sembrano tornare ad assumere quella stessa centralità.
Nel mio breve intervento – senza nascondervi un filo di emozione – volgo lo sguardo alla nascita dell’ente che rappresento, portandovi i saluti del Presidente Stefano Bonaccini costretto all’assenza per impegni istituzionali improrogabili.
Quando nelle stanze di Palazzo Malvezzi la Regione Emilia-Romagna muoveva i primi passi fra le istituzioni secolari della Città, su tutti il Comune e la nostra prestigiosa Università, ad esempio, l’organo cui appartengo, secondo un modello parlamentare, operava sulla base di un legame fiduciario con il Consiglio, senza un Presidente eletto in via diretta a presiederlo.
Si tratta soltanto di un piccolo esempio, che tuttavia può aiutarci a riflettere su come la storia delle Regioni e le vicende del regionalismo abbiano segnato le fasi della storia italiana in cui si è dibattuto sulla forma di governo e di possibili riforme dei rapporti tra centro e periferia delle istituzioni.
Nella fase odierna – e ne è un indizio convincente l’attenzione che il mondo accademico sta riservando ai temi che verranno sviluppati nei prossimi interventi – siamo entrati in una stagione politica decisamente orientata al rilancio del regionalismo a distanza di cinquant’anni dalle riforme degli anni ’70 e dopo la parentesi conosciuta con la riscrittura del titolo V, parte II, della Costituzione.
- La prima stagione statutaria dell’Emilia-Romagna e i suoi protagonisti
È noto che le regioni, dopo aver acquisito un ruolo centrale nell’assetto costituzionale, restarono sulla carta per più di un decennio.
In questa stasi, la classe politica e amministrativa della Regione Emilia-Romagna ebbe costantemente come suo obiettivo politico la questione regionale e l’attuazione degli istituiti di autonomia previsti in Costituzione.
E questo ci fa dire senza dubbio che in Emilia-Romagna è sempre esistita una forte radicazione delle autonomie locali e della stessa Regione fortemente solidale nel rivendicare la propria autonomia. Tale radicamento politico, sociale e culturale 50 anni dopo è alla base di uno dei più importanti progetti di rilancio delle autonomie che è l’iniziativa della Regione per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
La Regione Emilia-Romagna, oggi come allora, si candida a rivestire un ruolo centrale nel dibattito e nell’azione politico-istituzionale relativi a questa rinata propulsione autonomistica, forte di quella capacità di innovazione e visione prospettica che le deriva dalla vicinanza e dalla sensibilità al pensiero di alcuni dei più illuminati esponenti delle scienze sociali. Penso al professor Beniamino Andreatta, al professor Giorgio Berti, ad Antonio La Pergola e al Professor Fabio Alberto Roversi-Monaco, tutti componenti della commissione che, nel lontano 1971, presieduta da Lanfranco Turci, fu incaricata di partecipare, in ausilio agli esponenti di tutte le forze politiche dell’epoca, alla redazione del primo statuto regionale.
Anche per questo l’iniziativa di oggi, che parte dal ricordare il contributo scientifico che in quella stagione dette il professor Roversi Monaco, assume un’assoluta rilevanza.
Un sottile filo rosso sembra legare dunque la realtà odierna a quel particolarissimo momento istitutivo, in cui si posero le basi di quell’evoluzione che condusse nei decenni successivi all’attribuzione alle regioni di competenze legislative e funzioni amministrative che ha consentito l’evoluzione della nostra comunità spingendola fino a raggiungere capacità competitiva in relazione ai più sviluppati territori europei, coniugando sviluppo economico e tutela dei diritti sociali in un equilibrio armonico e virtuoso. Non vanamente, nell’ambito dei suoi principi fondamentali, lo statuto del 1971 prevedeva che la Regione concorresse a realizzare lo sviluppo civile, economico e sociale della comunità regionale operando per la promozione di un modello di sviluppo che valorizzasse particolarmente la cooperazione, la crescita economica e sociale, l’associazionismo economico, assicurando la piena occupazione e la tutela dei diritti dei lavoratori.
- Il rilancio delle Regioni quale premessa per valorizzare le politiche territoriali nell’interesse dell’intera nazione
L’incontro di oggi cade in un momento contraddistinto da scadenze ed eventi politici cruciali non soltanto per la vita del nostro Paese e delle istituzioni che sono chiamate a guidarlo. Il confronto particolarmente complesso con le autorità comunitarie sulla manovra finanziaria, la pressione dei mercati, la revisione al ribasso delle stime di crescita nazionale da parte delle maggiori agenzie di rating da un lato; dall’altro le tensioni sociali che attraversano il cuore dell’Europa e del mondo occidentale per come ci eravamo abituati a conoscerlo e interpretarlo rendono, se possibile, ancor più urgente il dibattito sui temi del governo territoriale e locale, quale leva decisiva per conservare quella coesione fra cittadini e amministrazioni che mai come oggi non possiamo dare per scontata.
Per oltre un decennio l’esigenza di fronteggiare una crisi economica senza precedenti si è tradotta sul piano delle relazioni fra centro e periferia in una sorta di neocentralismo, dalle cui ripercussioni, specie sul piano finanziario, il sistema del governo locale fatica a riprendersi, con evidenti ricadute sulla qualità dell’azione amministrativa e, con essa, sulla percezione concreta che i cittadini hanno della stessa: come lavoratori, automobilisti, genitori, pazienti, contribuenti e infine, elettori.
Sul piano della dialettica politica, parallelamente, la risposta dei governi locali, spesso costretti ad una mera presa d’atto di misure verticalmente impostegli, è consistita in una altrettanto costante richiesta, pur legittima, sofferta e, per le ragioni che ho provato a sintetizzare, comprensibile, di misure di incremento quantitativo delle risorse ad esse destinate dal centro. Per questa via si è, all’opposto, generata una spirale normativa fatta di interventi disorganici, incidentali, episodici che, pur consentendo di tamponare alcune delle situazioni di criticità finanziaria più evidenti, hanno fortemente limitato la capacità dei governi territoriali di elaborare politiche pubbliche stabili e coerenti, in grado di fornire risposte alle istanze più sentite dai vari territori sulla base delle loro diverse peculiarità.
Proprio il dibattitto scientifico che si è alimentato nell’ultimo biennio ha evidenziato acutamente come l’omogeneità – intesa come previsione di poteri e regole applicabili in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale e in relazione alle varie articolazioni territoriali del nostro ordinamento, dalle regioni ai comuni – che oggi caratterizza il nostro sistema di governo territoriale, non abbia impedito, ma abbia, se possibile, all’opposto acuito il già significativo divario sussistente fra intere porzioni del territorio nazionale.
Non mi riferisco soltanto al divario ormai risalente nel tempo fra le aree del nord e le aree del sud Italia, ma alla diversità di rendimento istituzionale e alla divergenza nelle performance amministrative che ormai caratterizza sempre più spesso anche territori contigui, aree urbane ed extraurbane, centri cittadini e periferie, restituendo l’immagine di un Paese che rischia di vedersi ridotta definitivamente la capacità di svilupparsi in tutte le sue componenti e in cui il divario fra di esse sembra destinato ad aumentare.
Se dunque, l’applicazione di regole uguali a territori, istituzioni, contesti sociali profondamente diversi non sembra aver costituito un presidio sufficientemente forte nel senso di garantire la tendenziale ed effettiva omogeneità nella fruizione dei servizi da parte dei cittadini sui territori, credo sia ormai definitivamente giunto il tempo di domandarsi se non sia il caso di riflettere sull’attualità di quelle regole o, in altri termini, di domandarsi se davvero possiamo aspirare ad un’omogeneità sostanziale continuando a parificare situazioni fortemente differenziate.
Considerazioni di questo tenore e di questa profondità sono alla base della scelta, inizialmente di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, cui si sono via via aggiunte numerose altre regioni a statuto ordinario, di attivarsi per conseguire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia secondo quanto previsto dall’art. 116, comma III, della Costituzione.
Il moltiplicarsi di tali iniziative ed il carattere strutturale che esse stanno via via assumendo sta a testimoniare prima di tutto l’esigenza per i governi territoriali e locali di un’inversione di tendenza netta, non più procrastinabile, nel senso di conseguire strumenti specifici e selezionati direttamente finalizzati a consentire l’attualizzazione e il potenziamento delle politiche pubbliche territoriali e la costruzione di pubbliche amministrazioni sempre più efficienti ed efficaci verso i propri cittadini e le proprie imprese. A pena del rischio che sia i primi – in termini di disaffezione, quale definitiva rinuncia a partecipare, parafrasando l’art. 3 della nostra Carta costituzionale all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, che le seconde (nel senso più tangibile del trasferimento di interi plessi produttivi fuori dai confini nazionali), se ne allontanino irrimediabilmente.
Penso, in altri termini, che ripartendo proprio dai territori si possano progressivamente lasciare sviluppare nuove energie nelle politiche territoriali che rischiano altrimenti di rimanere ingabbiate.
Mi auguro quindi che sapremo dimostrarci – come Paese e non come aree tra loro in concorrenza – capaci di accogliere quella che ritengo essere un’opportunità straordinaria per l’intera nazione e non v’è ragione di dubitare che un esecutivo che nel proprio programma tanto rilievo ha voluto riservare alla questione dell’autonomia differenziata, vorrà garantire il proprio impegno, secondo una logica di intensa collaborazione e forte cooperazione, nel consentire la conclusione di un percorso giunto a un così avanzato stadio di definizione.
- L’iniziativa della Regione Emilia-Romagna per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione
Lungo la medesima direttrice che ho fin qui tracciato si è snodata l’iniziativa di cui la Regione Emilia-Romagna si è fatta promotrice a partire dall’agosto 2017 al fine di acquisire, secondo il disposto dell’art. 116, comma III, della Cost., ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
Non mi soffermo in questa sede sulle modalità, pienamente partecipate e informate alla massima concertazione sia con tutte le forze politiche presenti in Assemblea legislativa, sia con il sistema delle istituzioni territoriali e delle loro associazioni rappresentative – su tutti Anci e Upi Emilia-Romagna -che con le rappresentanze delle categorie economico-sociali firmatarie del Patto per il lavoro della Regione Emilia-Romagna. Mi preme piuttosto valorizzare alcuni profili di fondo che abbiamo voluto porre a base della nostra proposta di differenziazione.
Una proposta che si fonda in primo luogo sulla volontà di conseguire l’incremento degli strumenti per le politiche territoriali, ma nella convinzione che si possa e si debba tenere in equilibrio la differenziazione territoriale con i principi cardine dell’unità giuridica dell’ordinamento, della coesione territoriale intesa come garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni in termini omogenei su tutto il territorio nazionale e della salvaguardia dei meccanismi di perequazione e di cooperazione finanziaria interregionale.
Proprio il rilievo conferito a tali principi nello sviluppo della nostra iniziativa costituiscono la più efficace garanzia che gli incrementi di competenza, che necessariamente conseguiranno dal riconoscimento alla Regione di ulteriori spazi di autonomia, non si traducano in una sorta di centralismo regionale, ma costituiranno all’opposto la premessa per rinforzare, in conformità ai valori che ho voluto rimarcare in precedenza, il ruolo essenziale degli enti locali nella duplice veste di attori cooprotagonisti delle decisioni strategiche e destinatari di ulteriori attribuzioni funzionali di prossimità, in piena attuazione dei valori della sussidiarietà e dell’adeguatezza.
In questa direzione e nella consapevolezza che inevitabilmente simili processi richiederanno pieno ed adeguato sostegno sia dal punto di vista ordinamentale che da quello finanziario, assumono, nell’economia dell’iniziativa regionale, particolare rilevanza le richieste avanzate in punto di governance istituzionale e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Sotto il profilo della governance istituzionale la proposta dell’Emilia-Romagna intende valorizzare competenze legislative e amministrative differenziate volte a consentire la realizzazione di innovativi modelli di esercizio concreto delle funzioni amministrative locali, a partire proprio da quelle di prossimità. Questo dovrà consentire, secondo una visione aggiornata del portato dell’art. 118, della Costituzione, anche una diversa allocazione delle funzioni amministrative in ragione delle effettive esigenze del territorio. Lungi dal costituire una rivendicazione di competenze sull’ordinamento locale nei confronti dello Stato, l’iniziativa della Regione, se, come sembra, potrà tradursi nella sottoscr4izioen di una formale Intesa con il Governo, potrà effettivamente porre condizioni reali affinché Regioni e autonomie locali possano sviluppare appieno la loro missione, completando in tal modo, un lungo processo orientato alla valorizzazione dello Stato delle autonomie.
Sullo stesso piano si pongono gli obiettivi concernenti il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Qui, l’avere nel 2001 il nuovo titolo V della Cost. previsto tali materie fra le competenze legislative concorrenti Stato-Regioni va letto nel contesto soprarichiamato costituito dalle altre scelte di politica istituzionale orientate a rafforzare il sistema delle autonomie che si sono richiamate in precedenza. La legislazione emergenziale imposta dalla crisi economica che ha caratterizzato l’ultimo decennio ha, di fatto, affievolito la portata di questa affermazione facendo prevalere, come è ben noto, la supremazia dello Stato nel controllo delle risorse finanziarie, anche e soprattutto locali. Come emerso più volte nel corso nel dibattito politico in corso, come pure in questa sede, si devono invece costruire le condizioni favorevoli per porre in equilibrio il doveroso rispetto dei vincoli di finanza pubblica con la possibilità, all’interno del territorio regionale, di consentire una capacità virtuosa di spesa a sostegno di politiche territoriali. Occorrono indubbiamente leve di distribuzione interne al sistema territoriale di tipo verticale e orizzontale che consentano di liberare risorse finanziarie a sostegno degli investimenti, nella cornice di un unico tetto di spesa regionale. Si tratta, in fondo, di riconoscere rilievo costituzionale attraverso una legge statale rinforzata quale sarà quella di approvazione dell’Intesa, secondo quanto previsto dall’art. 116, comma III, di un meccanismo che la Regione e i suoi enti locali hanno già sperimentato con profitto in via ordinaria, con l’approvazione, nel 2010, della l.r. n. 12 che introduceva il Patto di stabilità della Regione Emilia-Romagna.
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