Alla Festa dell’Unità di Bologna a un dibattito insieme ad Alessandro Zan

Con Alessandro Zan 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 per parlare di diritti e società alla Festa dell’Unità di #Bologna assieme a Stefano Ferrari di TRC Bologna.
È un momento determinante per noi e per le nostre idee: le contraddizioni della destra, tra opposizione prima e governo oggi, all’interno e in Europa sono evidenti a tutte e tutti su tanti temi, in primis l’immigrazione.

LA TRACCIA DEL MIO INTERVENTO

Dalla parte delle persone è sempre stato il principio cardine che regola la vita politica e i percorsi scelti dal Partito Democratico. Significa scegliere di stare dalla parte di chi, nella società, ha meno tutele e diritti: le famiglie più povere, le donne, i migranti, le comunità lgbt, fanno ancora parte di quelle categorie, anche se non vorremmo di certo usare questa denominazione, per cui ancora ogni giorno dobbiamo fare ampie battaglie. La meta più importante alla quale aspiriamo è un principio pienamente egualitario, principio che oggi non solo sembra allontanarsi, ma che viene messo continuamente in discussione da un centrodestra che sembra voler affossare anche i diritti acquisiti in tutti questi anni.

Dalla parte delle persone significa non voltarsi dall’altra parte quando si incontrano criticità, minoranze, quando le tutele vengono meno, quando c’è da difendere i nostri valori e i nostri ideali; non stare dalla parte del più forte, ma avere la consapevolezza che un aiuto collettivo possa migliorare il benessere della società tutta. Ascoltare le esigenze, cercare di porre rimedio alle sofferenze. Noi stiamo cercando di farlo. La nostra estate militante è servita per portare avanti delle battaglie che, siamo convinti, possano migliorare la vita delle persone: dal salario minimo, per dare dignità a tutte le lavoratrici e i lavoratori, alla tutela di un sistema sanitario universalistico, che curi un ricco e un povero allo stesso modo, fino al contrasto verso ogni forma di discriminazione, perché questo produce solo intolleranza e un odio pericoloso.

Contrastare ogni forma d’odio è fondamentale in un mondo evoluto, lo sa bene il Partito Democratico che ha portato avanti grandi battaglie, negli ultimi anni, affinché strumenti legislativi efficaci potessero prevenire e contrastare le discriminazioni ed ogni forma di odio e maltrattamento.

Il tema dei diritti è nel DNA del Partito Democratico. Attraverso la buona politica e la partecipazione dal basso, di cittadini e cittadine che sentono nei nostri valori l’unico modo per concepire il futuro, possiamo creare una rotta che ci appartiene. Il Partito Democratico è una forza responsabile, democratica, progressista ed europeista, a cui sta a cuore il destino della collettività. Insieme siamo una forza, per i diritti, per una società migliore.

Sono passati due anni dal naufragio del ddl Zan in Senato e, con il governo più a destra della storia recente italiana, la situazione sul versante dei diritti LGBTQIA+ sta precipitando. I diritti della comunità Lgbt sono più a rischio che mai e la mancanza di leggi adeguate non fa altro che aggravare la situazione.

Un disegno di legge sull’omolesbobitransfobia che non venne accolto, se vi ricordate, fra incresciosi applausi. Applausi che fecero il giro del mondo, mostrando il grave grado di arretratezza di una destra intransigente e anacronistica. Lontana pensino dalle destre europee che, con un orientamento liberale, guardano anche ai diritti arcobaleno.

Il Rainbow Index, l’indice che misura la tutela dei diritti in Europa compilato ogni anno dall’Ilga, la più grande rete europea delle associazioni LGBTQ+, ci dice che, dei 49 Paesi presi in considerazione dal ranking, il nostro Paese si posiziona solo al 34esimo posto sul tema dei diritti, perdendo addirittura una posizione rispetto allo scorso anno.

L’Italia tutela, infatti, solo il 25% (una percentuale addirittura inferiore a quella dell’Ungheria di Orban) dei diritti arcobaleno, e l’incitamento all’odio è rimasto diffuso quest’anno anche da parte dei politici.

Affermazioni come l’omosessualità è un “abominio” e che le coppie di genitori omosessuali non sono normali, dei deputati di Fratelli d’Italia Federico Mollicone e Lucio Malan, riportate nel report di Ilga, non fanno altro che confermare la volontà di retrocede a una dimensione medioevale della società.

Con il Ddl Zan avremmo voluto fare un passo avanti, con una legge che puniva ogni forma di discriminazione e di violenza basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Mentre il tema è stato derubricato sostenendo che esistevano già delle leggi in merito, e che un’ulteriore legge sarebbe stata superflua ritenendo, in maniera sconsiderata, che avrebbe tolto la “libertà di pensiero”.

A farsi sentire in questo contesto è, invece, la totale assenza di qualsiasi legge sui crimini e i discorsi d’odio, di cui persino l’Ungheria si è dotata nel 2013.

Una battaglia che non abbiamo intenzione di abbandonare, siamo la forza politica che può creare un argine all’avanzata di una destra sovranista ed arretrata, che sui diritti sociali e civili è tra le più arretrate d’Europa.

Una destra che non sarebbe mai in grado di creare una società inclusiva, aperta e solidale. Valori che invece rappresentano saldamente l’identità del Centrosinistra, un Centrosinistra che crede sopra ogni altra cosa alla dignità e ai diritti di ciascun individuo. Il rischio con questo Governo è di mettere in discussione i diritti già assodati. L’Italia merita di essere un Paese equo, solidale, tollerante, che porti con grande facilità e trasparenza una legge contro i crimini d’odio, invece di continui ostruzionismi.

Riconoscere per legge il diritto delle coppie omogenitoriali

Abbiamo invece assistito ad un altro fatto senza precedenti: il Governo ha bocciato il certificato di filiazione europeo destinato ad assicurare il riconoscimento dei diritti dei figli anche delle coppie gay e l’adozione nei Paesi dell’Unione, bloccando la registrazione dell’atto di nascita per i minori nati da coppie dello stesso sesso. Restringendo di fatto l’ambito dei diritti.

Il 30 marzo 2023, il Parlamento Europeo, nell’adottare la relazione sullo stato di diritto nell’Unione europea (2022/2898 RSP), ha condannato le istruzioni impartite dal governo italiano di non registrare gli atti di nascita di figli di coppie omogenitoriali, affermando che «questa decisione porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo dalle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli» e che tale azione costituisca «una violazione diretta dei diritti dei minori, quali elencati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989».

La legge italiana non prevede e quindi non riconosce i figli delle famiglie omogenitoriali. Il loro destino è stato fino ad oggi legato alle mani dei sindaci che sono riusciti a sanare un vuoto legislativo aggrappandosi agli orientamenti dei tribunali, e di fatto riconoscendoli.

Si tratta però di procedimenti onerosi, tempi lunghi e costi economici ed emotivi. Il genitore non biologico, e quindi non riconosciuto, deve sottoporsi ad umilianti e discriminatori controlli di idoneità fatti dagli assistenti sociali, che non tutelano il minore.

Mercoledì 24 maggio la maggioranza di governo ha bocciato due emendamenti che avrebbero introdotto nell’ordinamento italiano la trascrizione degli atti di nascita dei figli delle coppie omosessuali concepiti all’estero.

Le proposte avanzate rispettivamente da Pd e +Europa, che hanno portato in Parlamento le istanze avanzate da alcuni sindaci, riguardano il progetto di legge di Fratelli d’Italia sulla maternità surrogata. Confermando la loro volontà persecutoria contro le famiglie arcobaleno, i cui bimbi continuano ad essere discriminati.

Si tratta di una battaglia di civiltà; sono bambini e bambine che vanno nelle nostre scuole e crescono nelle nostre comunità, come tutti gli altri, non c’è alcuna ragione per negare il loro riconoscimento. Le discriminazioni non hanno mai portato ad un avanzamento della società; una società che non discrimina e non marginalizza è più sicura e non lascia indietro nessuno.

Sono personalmente a favore della gestazione per altri solidale, etica e altruistica, senza costrizioni e alcuno sfruttamento economico. Ricordo, inoltre, che si rivolgono alla Gpa per più del 90% coppie etero , mentre la maggioranza di governo usa questo argomento con il solo obiettivo di criminalizzare le famiglie arcobaleno e le coppie omosessuali, ed è una situazione insostenibile. Oltretutto si tratta di percorsi onerosi e complessi, a testimonianza della grande volontà di chi li intraprende.

A luglio abbiamo assistito invece al primo via libera alla proposta di legge che rende la maternità surrogata un reato universale (pena prevista dai 3 mesi ai 2 anni di reclusione e multa da 600.000 a 1.000.000 di euro) . L’Aula della Camera ha approvato la pdl firmata dalla deputata di Fratelli d’Italia Carolina Varchi con 166 voti a favore, 109 contrari e quattro astenuti. Pd, M5s, Alleanza Verdi e sinistra e +Europa hanno votato compatti contro la proposta di legge. La pdl Varchi, che considera solo sul territorio italiano la Gpa reato di pari grado al genocidio o ai crimini di guerra, passa ora all’esame del Senato.

Non possiamo rimanere inermi a guardare questo scempio dei diritti.

Dobbiamo renderci conto che non stiamo parlando di proiezioni future, ma di bambini e bambine che sono già parte della nostra comunità.

Vanno riconosciuti senza se e senza ma i diritti che spettano loro. Non è ammissibile che un genitore debba girare con la delega del partner perché in Italia il suo ruolo non è riconosciuto. Che immagine stiamo dando a questi bambini?

Non è accettabile che la maternità surrogata venga considerata un reato. I reati sono ben altri e non riguardano la decisione di persone che si amano di mettere al mondo dei figli. Quando si tratta di diritti la chiarezza deve essere netta e definita.

 

Donne e lavoro

Il lavoro è il principale strumento di inclusione sociale e una delle vie per assicurare ad ogni persona un’esistenza libera e dignitosa.

Le disuguaglianze di genere sono uno dei temi principali da affrontare nel panorama politico e sociale a livello internazionale. Ancora oggi permangono disparità importanti che si riflettono nell’accesso al mercato del lavoro, dove sono numerosi gli ostacoli che le donne devono riuscire a superare, compreso un retaggio culturale che vede molto spesso le donne confinate ai soli ruoli di cura.

La condizione femminile misura la qualità democratica di un Paese e, quando favorevole, lo arricchisce, perché investire sul lavoro delle donne significa investire nell’economia e nella crescita di un territorio. Sono ormai diversi gli studi che lo hanno messo in evidenza:

secondo le stime di Banca Italia l’aumento dell’occupazione femminile al 60 per cento, in Italia, si assocerebbe “meccanicamente” ad un Pil nazionale più elevato del 7 per cento.

È uno degli obiettivi a cui puntava il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che per il triennio 2024-2026 avrebbe aspirato a superare la soglia del 60 per cento di occupazione femminile, attraverso una serie di stanziamenti diretti e indiretti del valore di 38,5 miliardi di euro, di cui 3,1 in misure mirate alle donne e altri 35,4 destinati a misure indirettamente riconducibili al riequilibrio di genere.

Per questo non possiamo permettere che uno strumento importante come il PNRR possa slittare o essere ridimensionato con la conseguente perdita di progetti centrali per la crescita economica e sociale del nostro Paese, compreso il mercato del lavoro e gli squilibri di genere.

Dobbiamo cogliere tutte le opportunità, a partire dal Pnrr, perché investire sul lavoro delle donne significa investire nell’economia e nella crescita di un Paese.

Attualmente in Italia solo il 49,5% delle donne ha un posto di lavoro di cui solo il 31% a tempo pieno, perché di fatto c’è un altissimo ricorso al part-time nella gran parte dei casi involontario. Come sappiamo le donne sono state, inoltre, maggiormente colpite dall’emergenza pandemica: con la chiusura delle scuole e la maggiore difficoltà di accesso ai servizi di assistenza per gli anziani riuscire a conciliare la vita professionale con gli impegni famigliari è diventato sicuramente più complicato. In molte hanno dovuto sacrificare la propria dimensione relazionale riducendo di conseguenza il tempo a loro disposizione.

Inoltre, i salari diminuiscono per le madri nei 24 mesi successivi alla nascita dei figli e si allontanano le prospettive di carriera ed economiche. Ad esempio, in E-R le dimissioni volontarie nel 2020 sono state in prevalenza di madri lavoratrici con figli minori di 3 anni, le più penalizzate dalla pandemia.

Le donne sono in prevalenza impiegate nei settori di lavoro prevalentemente povero, e questo ha delle forti ripercussioni in termini sia reddituali che previdenziali tanto che le donne over 65 hanno un reddito annuo inferiore dell’11% rispetto agli uomini della stessa età.

Se parliamo nello specifico di un mondo come la libera professione, dove la costruzione dei rapporti con la clientela, i colleghi, i fornitori, e di tutto quanto ci sta intorno, è prioritario per lo sviluppo del percorso di carriera, capiamo quanto aspetti come l’emergenza pandemica o anche solo la quotidiana vita familiare possano influire sulla professione se accanto non mettiamo politiche di welfare che aiutino la continuità professionale ed economica delle donne.

È necessario, quindi, fare crescere tutti quei servizi di welfare e reti di collaborazione tra professioniste che favoriscano la conciliazione dei tempi di vita, con i tempi di lavoro, ed evitino di esporle al rischio di uscita dal sistema.

Bisogna favorire la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro attraverso ulteriori investimenti nel welfare e sgravi fiscali a favore delle aziende, ed attraverso un cambio culturale, troppo spesso rigido, che vede le donne confinate in ruoli di cura e non proiettate verso la realizzazione personale.

In Italia c’è ancora molto lavoro da fare, sia rispetto agli strumenti legislativi che ci siamo dati a livello nazionale e regionale, sia in riferimento ai dispositivi con cui si è inteso dare attuazione a quelle norme, la cui efficacia si scontra con la frammentazione delle realtà territoriali e di governance, le resistenze del sistema generale e una cultura diffusa spesso poco rispettosa della parità di genere.

È una dimensione complessa, ma determinante per il futuro del nostro Paese. Per sostenere e favorire questo cambiamento è fondamentale trovare un terreno comune su cui lavorare e concentrare idee, forze e risorse su obiettivi condivisi. Sta a noi rivendicare un lavoro di qualità e al contempo rimuovere le cause che non consentono alle donne di accedere ai posti apicali in tutti i settori.

In questa direzione è andata anche la  direttiva approvata dal Parlamento europeo a novembre che mira ad incrementare la presenza femminile nelle posizioni apicali nelle aziende con più di 250 dipendenti. Entro fine giugno 2026 il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecuti ed il 33% di tutti i posti di amministratore dovranno essere occupati da donne. Una decisione storica che deve fare salire una media attuale europea del 30,6%.

Il tetto di cristallo che impedisce alle donne di salire ai vertici è stato finalmente infranto come ha detto la presidente dell’esecutivo Ue Ursula von der Leyen. Tutto questo per garantire dignità, libertà e diritti nel presente e creare le premesse per migliorare il futuro.

Dobbiamo realizzare davvero l’uguaglianza di genere, la parità salariale effettiva, il riconoscimento dei diritti e delle tutele per tutte le lavoratrici. I numeri parlano, e ci dicono che non solo a parità di titolo di studio, le donne sono svantaggiate, ma che lo sono anche quando hanno titoli superiori: o non riescono a entrare nel mercato del lavoro o, quando vi entrano, sono pagate meno e trattate peggio.

Questo è ciò che si vuole evitare. Il valore e le competenze femminili vanno riconosciute e la società deve essere in linea con i desideri e le aspettative delle donne, lo dobbiamo alle future generazioni. Solo un dato: il numero delle laureate supera quello dei laureati; in Emilia-Romagna il 56,5% degli iscritti a un corso di laurea è donna, il 57,4% dei residenti laureati è donna, e la quota di laureate a 25 anni è del 45,6%, mentre i laureati a 25 anni sono solo il 30,6%.

Tutto questo mentre il gap salariale a favore degli uomini continua ad esistere, ed i ruoli apicali sono per la maggior parte appannaggio maschile.

Finché rimaniamo nel range scolastico lo sbilanciamento è a favore delle donne, con risultati migliori, mentre una volta entrate nel mercato del lavoro la situazione viene completamente invertita. Dove sta l’intoppo? È per questo che dobbiamo continuare a batterci per politiche che abbiano a cuore la questione femminile; la legge sulla parità salariale ha prodotto sicuramente risultati in questo senso, ma dobbiamo proseguire.

Il nostro è un Paese dove la regressione della sfera dei diritti sociali ha portato a un crollo della natalità e a un impoverimento diffuso delle fasce più deboli. Il lavoro povero è aumentato e ha colpito soprattutto le famiglie numerose e le donne.

L’emancipazione della donna passa anche da questo, dalla riduzione del carico di lavoro: se concepiamo la figura femminile come l’unica deputata alla gestione della famiglia intesa come, cura dei figli, pulizia della casa, e quant’altro, non saremo mai in grado di concorrere allo step successivo che è quello di una politica realmente paritaria, con un rischio che è un’evidenza: dover scegliere tra carriera e famiglia.

 

Come Coordinatrice delle Pari opportunità e di genere della Conferenza delle assemblee legislative mi sento in dovere di ricordare come il sessismo ordinario possa inserirsi come ultima frontiera della discriminazione delle donne.

La delegittimazione di tutto ciò che è femminile porta ancora a definire il ruolo della donna nella società come subordinato a quello maschile. Si insinua nel quotidiano in tanti preconcetti che siamo talmente abituati a sentire da non accorgercene nemmeno: dalle parole, al mondo del lavoro, ai comportamenti, con immeritati atteggiamenti paternalistici che le donne sono costrette a tollerare per non uscire da quel circuito in cui, a fatica, si sono inserite.  Lacerazioni che pesano su un’incompiuta realizzazione personale e che minano l’autostima delle donne, senza contare la mancata possibilità di fare carriera e di accesso ai vertici, aspetti che non sono degni di una società evoluta.

Per riuscire a superare questo problema quotidiano serve un impegno concreto, perché colpisce ogni perimetro sociale generando la mortificazione delle donne e l’impossibilità di avere pari opportunità. Dal diverso accesso alle professioni, al gender gap salariale, alla continua narrazione di considerare la donna, a torto, più debole ed incapace a rivestire certi ruoli.

L’impegno deve essere promosso a livello educativo così come a livello mediatico, per evitare di comunicare, anche involontariamente, stereotipi sessisti.

 

Patto ‘No women no panel’

È per me un grande privilegio essere presente all’interno di un contesto, come l’Assemblea legislativa e la Regione Emilia-Romagna, che valorizza la presenza delle donne nella vita pubblica, culturale e comunicativa.

Il 27 aprile di quest’anno è stato sottoscritto il Protocollo d’intesa tra Rai, Regione, Città metropolitana, Comune e Università di Bologna con l’obiettivo di promuovere la presenza delle donne nel dibattito pubblico, valorizzando competenze, esperienze e talenti femminili; perché una democrazia non può essere definita tale se non viene attuato appieno il principio di uguali opportunità.

Il patto ‘No women no panel’, senza le donne non se parla, lanciato il 22 novembre scorso dalla Rai in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e che deriva da un progetto nato nel 2018 in seno alla Commissione europea, e dal successivo Memorandum d’intesa del 2021 che la RAI Radiotelevisione italiana S.p.A. promuove tra le istituzioni, ha come principale missione quella di garantire l’equilibrio di genere nel dibattito pubblico, convegni, seminari e talk e la messa a bando del “manel”.

Già dal 2016 il Financial Times metteva in evidenza i troppo convegni dove i relatori erano solo uomini, i così detti “manel”, panel solo maschili, che sono una chiara dimostrazione pubblica di disuguaglianza e segregazione di genere.

Diversi indicatori rilevano che, sul tema dei diritti delle donne, in Italia la strada da percorrere è ancora molto lunga:

–         in Europa risultiamo fanalino di coda, classificandoci al 14esimo posto per la parità di genere nella classifica dell’Indice sull’uguaglianza di genere elaborato da EIGE (European Institute for Gender Equality) del 2020;

–         un italiano su tre pensa ancora che il lavoro e le competenze siano una prerogativa maschile;

–         mentre nel report 2023 del Global Gender Gap, un indice che misura il divario di genere nella partecipazione economica e politica, nella salute e nel livello di istruzione, l’Italia scivola in un solo anno dal 63° al 79° posto e nella classifica europea siamo al 30° posto su 36°.

Dati preoccupanti che delineano una società che resta ancorata ad una idea patriarcale, dove la donna continua ad assume nell’immaginario collettivo un ruolo marginare e relegato alla cura domestica.

Mettere in secondo piano il talento femminile non è un problema solo legato alla valorizzazione della donna, ma penalizza la nostra società tutta.

Sul piano economico un’inversione di rotta produrrebbe benefici.

Un rapporto dell’OCSE stima che il PIL mondiale potrebbe aumentare di due punti percentuali se il gap di partecipazione delle donne all’economia si dimezzasse e gli stessi indicatori del BES – Benessere Equo e Sostenibile – rilevano l’incidenza delle disparità di reddito e partecipazione tra donne e uomini quale causa di stasi se non crisi economica.

Si tratta di un processo di riconoscimento necessario per un progetto di società pienamente rappresentativo ed egualitario; senza il contributo femminile una parte della collettività resterà sempre inespressa.

Mentre promuovere questo cambiamento culturale significa scoprire che di donne adatte e competenti ce ne sono già tantissime, sta solo a noi scegliere di riconoscerne i meriti e non perpetuare continui atti di ingiustizia, chiedendo sempre alle donne un passo indietro.

Perché spesso a una donna viene richiesto il doppio, delle competenze e del coraggio, per sfidare una società al maschile dove permangono ancora numerosi stereotipi e pregiudizi. E questo non va bene. Vorrei che ogni bambina crescesse con l’idea di potersi realizzare al pari dei propri compagni di scuola, seguendo le proprie inclinazioni e i propri desideri, e non con la paura di essere mortificata o di dover ridimensionare le proprie aspirazioni: si tratta di standard legati ad una società arcaica, patriarcale e fuori tempo massimo

Un’equa rappresentanza di genere in ogni dibattito e talk è un argomento di forte rilevanza.

La presidente Rai, Marinella Soldi, aveva mostrato che negli ultimi rilevamenti Rai del 2020, la presenza femminile nella programmazione era al 37%. Un dato molto basso per un servizio pubblico che deve essere di tutti.

 

Donne di sinistra

Le donne di sinistra sono sempre state coloro che hanno cercato di costruire un futuro migliore: il progresso è arrivato grazie a questa parte politica.

Mentre l’MSI, il Partito dove Giorgia Meloni si riconosce, tanto da lasciarne lo scandaloso simbolo, ha sempre cercato di fare ostruzionismo sulle leggi legate ai diritti delle donne; la sinistra, invece, ha sempre ritenuto necessario portare avanti con forza e determinazione leggi che avrebbero cambiato il futuro dell’Italia e quell’idea di conservatorismo che nega alla donna il diritto di poter scegliere liberamente sulla propria vita.

Un’autodeterminazione negata per troppi anni che invece le donne dai tempi del PCI hanno saputo imporre. Lo hanno fatto nell’unico modo che si potesse fare per cambiare il corso della storia: riformando leggi obsolete.

Quelle leggi che se presenti oggi sarebbero ritenute segnali di grave inciviltà e che, nonostante questo, la destra sovranista cerca ancora di riproporre.

A settembre ricorre l’anniversario dell’abolizione del matrimonio riparatore, il 5 settembre infatti l’abominio che costringeva di fatto le donne a sposare chi le aveva stuprate, colpevolizzando di fatto la vittima, è stato cancellato. Troppo tardi perché l’eliminazione arrivò nel 1981.

Mete come queste le dobbiamo come sempre al coraggio e al sacrificio delle donne. A Franca Viola, ex fidanzata del mafioso Melodia, che aveva deciso di non sposarlo dopo la scoperta della sua attività criminale. Dopo il suo rifiuto venne rapita, picchiata e violentata per una settimana. È dal suo rifiuto che partì la battaglia per l’abolizione del matrimonio riparatore.

L’MSI voto contro l’eliminazione di questa vergogna, così come votò contro la legge 194/78 per l’interruzione volontaria della gravidanza.

(Tra il 17 e 18 maggio del 1981 milioni di persone si recarono a votare ribadendo il loro appoggio alla legge 194. Prima di quella norma, arrivata nel 1978, per il codice penale una donna che praticava l’interruzione volontaria di gravidanza rischiava fino a quattro anni di carcere, e chi causava l’aborto a una donna consenziente addirittura cinque. Alle urne si presentò più del 79% degli aventi diritto).

Uno dei più seri pericoli a cui stiamo assistendo con un governo di centrodestra è proprio il rischio di dover spostare all’indietro le lancette dell’orologio.

 

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